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SEI EQUILIBRATO TRA AUTONOMIA E DIPENDENZA?

SEI EQUILIBRATO TRA AUTONOMIA E DIPENDENZA?

 In blog

Quanto si dovrebbe essere dipendente dagli altri? Qual è la posizione giusta da adottare?
Ovviamente nessuno ha la formula esatta su questa tematica e nessuno capisce perché ci sono persone che sono tenacemente indipendenti, che si sentono a loro agio nell’esplorazione solitaria del mondo difendendo a spada tratta la loro autonomia e la libertà, e altre che sembrano nate per essere guidate, estremamente bisognose di supporto, protezione e consigli. La posizione dominante, sia dal punto di vista psicologico, ma anche nel senso comune, è quella di rispettare le inclinazioni personali di ognuno, qualsiasi sia l’atteggiamento scelto lungo la dimensione dipendenza-indipendenza. Anche all’interno di una psicoterapia gli psicoterapeuti devono fornire un ascolto empatico e non giudicante delle vicende e dei sentimenti dei pazienti fornendo una totale disponibilità e supporto per la persona e le sue scelte. I terapeuti hanno il dovere di accogliere gli atteggiamenti e i sentimenti dei pazienti con un rispetto incondizionato riflettendo su di essi empatia, comprensione e accettazione. La concezione generale è che l’unicità di ogni persona deve essere rispettata e che i terapeuti sono lì per incoraggiare, supportare, stimolare, e non per tentare di apportare cambiamenti non desiderati dai pazienti.
Allo stesso tempo è una verità incontestabile che tutti noi abbiamo molto bisogno di essere sia indipendenti sia capaci di intessere relazioni sentimentali e/o amicali intime e impegnate. In altre parole di essere capaci di amare e di essere amati (qualsia sia la forma specifica in cui tutto ciò si può sviluppare), ma, parallelamente dobbiamo anche essere coraggiosamente indipendenti.
Più frequentemente i problemi sorgono solo quando il collocarsi in posizioni estreme è vissuto in modo insoddisfacente, conflittuale o problematico della persona stessa. Nell’ambito delle problematiche psicopatologiche, entrambi gli estremi sono visti abbastanza spesso. Una persona eccessivamente passiva, dipendente o disponibile a essere manipolata e sfruttata non è sicuramente un esempio di benessere e salute mentale. Così come una persona estremamente centrata su di sé, che si preoccupa solo dei suoi affari, che evita qualsiasi tipo di intimità, cooperazione o interesse nei confronti del prossimo.
Le cause di questa diversità possono avere origini molto lontane. Per esempio in ambito familiare; bambini iperprotetti e curati possono avere difficoltà a trovare, da adulti, una sana autonomia e indipendenza, e potrebbero avere difficoltà a competere e resistere alle durezze della vita. Più in specifico, tanto per fare degli esempi, si pensi a bambini le cui richieste di dormire in compagnia di un genitore (dei genitori), o di essere assistito per i propri bisogni igienici, siano assecondate fino ad un’ età francamente poco ragionevole. All’estremo opposto bambini che sono stati privati precocemente di cure amorevoli e adeguate o che ne hanno ricevuto in modo asfissiante e insensibile alle reali necessità, (forse perché erano cure più che altro motivate da un qualche bisogno di chi le forniva, per esempio perché era un modo del genitore di colmare qualche sua mancanza o ansia esistenziale) potrebbero diventare degli adulti che hanno associato all’intimità e alla condivisione episodi traumatici o sentimenti di fastidio e oppressione diventando così incapaci di ricevere cure e affetto e di sintonizzarsi intimamente ed emotivamente con il prossimo.
Non so se ti è mai capitato di osservare persone che addirittura, quando sono gravemente malate, allontanano da loro il personale medico dell’ospedale perché non sopportano nessuno che si prenda cura di loro.
La condizione teorica ottimale è data dalla maestria di riuscire ad oscillare, da una parte, tra la salutare dipendenza, ovvero dalla capacità di ammettere, qualora si verifichi, 1) di trovarsi in una condizione di difficoltà, di bisogno, 2) dalla conseguente capacità di comunicare la richiesta di aiuto e 3) di permettersi di riceverlo, e, dall’altra, la capacità di riuscire a stare bene con se stessi e a fare il possibile per risolvere i propri problemi in autonomia. Questo balletto è ben visibile nelle coppie che riescono a vivere armoniosamente la loro relazione, dove è evidente la capacità di entrambi di essere alternativamente capaci di fornire sostegno e cure amorevoli e di riceverne, a seconda delle circostanze della vita. E’ proprio questa reciprocità e intercambiabilità di ruoli dei partners amorosi che conferisce alla vita di coppia un senso di uguaglianza, sicurezza e di stimolante variabilità. E’ sicuramente un grave errore quello di pensare che si possa legare a sé una persona delegandogli una totale capacità decisionale, mostrandosi totalmente sottomesso, accondiscendente e servizievole, annientando così la propria persona di fronte all’altro. Tale disposizione ha quasi sempre portato all’instaurarsi di dinamiche perverse all’interno della coppia, a un clima noioso e improduttivo per la crescita personale di entrambi, e, al consolidarsi di sentimenti di schiavitù e vergogna per la persona in posizione sottomessa.
Per le coppie che si trovano in tale condizione disarmonica potrebbe essere improbabile che sia il partner subordinato a spingere verso una maggiore uguaglianza e reciprocità. Quindi, è auspicabile che il movimento verso un equilibrio gratificante sia portato avanti proprio dal partner che si trova in una posizione “forte”. Questi, rinunciando alla sua apparente posizione privilegiata, determinata dall’essere collocato su un piedistallo di autorevolezza e prestigio, e spogliandosi del suo ruolo decisionale, esorta con delicatezza, ma decisione, il proprio partner “debole” ad acquisire maggiore autonomia e interesse per sé stesso. Tutto questo può essere facilitato dalla convinzione che la coppia riuscita non concepisce al suo interno un perdente e un vincente, ma è un’unica entità, “una squadra”, che vince o perde insieme, che affronta insieme le varie vicissitudini della vita.
In conclusione mi sento di fare un invito a chi vive da solo, nel senso che non è sposato o che non convive, sia per vicissitudini vari della vita o per scelta, magari proprio perché persegue uno stile di vita improntato all’autonomia e all’indipendenza. Ecco dicevo, l’invito è quello di fare comunque il possibile per non rendere estrema tale condizione, cioè avere ben presente la differenza che c’è tra autonomia e indipendenza, e solitudine e isolamento, e fare il possibile per scongiurare ed allontanare questi ultimi. Quindi mi sento di esortati a fare il possibile per creare, o mantenere e rinforzare, la tua rete familiare o di amicizie e vicinato, di sforzarti per interessarti agli altri, essere disponibile, per quanto possibile, ad essere presente in caso di difficoltà altrui. Tutto questo, innescherà dei movimenti virtuosi di solidarietà e integrazione reciproci di cui tutti si avvantaggeranno.

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